sabato 3 marzo 2012

nene, è ora di crescere

L'ospedale Niguarda a Milano è talmente grande che all'ingresso ti danno una mappa come a Disneyland.
Una storia che inizia in un ospedale di solito è una storia triste e anche questa è un po' triste.
Però è soprattutto la storia di due persone care, di due belle persone.
Non dimenticatelo, mentre leggete.
L'ospedale Niguarda a Milano è di architettura fascista: grossi edifici squadrati, alti soffitti, portici e monumentali sale d'attesa: ha fascino storico e aggressive linee armoniche, celebra la gloria della scienza, la maestà dell'impero che tutto guarisce.
All'interno c'è un giardino, dove la malattia può trovare riposo da tanta altisonanza, un bel giardino grande con viali e panchine.
Io e Awa ci abbiamo passeggiato a lungo mentre aspettavamo che Mor facesse il suo ciclo di chemio, una settimana ogni due, per quattro mesi.
E passeggiando è venuta a galla molta vita, in quel giardino.
Mor non poteva più guidare, a quarantacinque anni era diventato un vecchio, lungo lungo e magro come un chiodo.
Andavo a prenderli a Mariano alla mattina presto e un'ora dopo eravamo a Niguarda: la chemio durava circa tre ore e io e Awa aspettavamo.
Aspettavamo che le vene di Mor si riempissero di medicina.
Sapevamo tutti, e anche lui, che non sarebbe servito a niente.
Aspettavamo che morisse.
Aspettavamo di sapere cosa sarebbe successo dopo.
Per fortuna, dopo cinque mesi, Mor ha deciso di tornare in Senegal: è morto due giorno dopo aver riabbracciato sua madre.
Awa mi chiamava nene, bebè.
Non è molto più grande di me, Awa, ma è sempre stata molto più saggia, ha la pacatezza e la pazienza che io non ho mai avuto e faceva del suo meglio per trasmettermi un po' di voglia di crescere, in quelle lunghe passeggiate.
Un albero dopo l'altro, un passo dopo l'altro, Awa si distraeva dal terrore di quello che sarebbe stato di lei senza suo marito.
Awa e Mor non hanno mai avuto figli nè hanno mai condiviso il loro legame con altre mogli, sono sempre stati solo loro due: lui faceva mercati, da vent'anni, in tutto il nord italia; lei si occupava della casa, di lui, delle relazioni famigliari.
Entrambi con un carattere chiuso, ci avevano messo parecchio a decidere di volermi conoscere e anche allora erano stati freddi per molto tempo, diffidenti di fronte a questa toubab che non sembrava volersi conformare per niente alle regole senegalesi dei rapporti tra le persone: una toubab che raccontava i fatti suoi e si intrometteva nei fatti loro, che se ne fregava se non era la moglie di nessuno ma solo da sei anni la fidanzata del nipote e si comportava come se fosse parte della famiglia, una toubab che non aveva soldi da elargire nè favori da fare, che dimostrava affetto e partecipazione ma era anche capace di criticare questi zii che pur sapendo di sbagliare cercavano con durezza di proteggere il nipote dalla corruzione occidentale.
E il nipote era scappato.
Da mesi viveva per strada, forse a Bologna, forse a Roma, forse da tutt'altra parte.
A unirci era stata prima di tutto la preoccupazione.
Lui mi chiamava ogni cinque o sei giorni, mi raccontava la sua disperazione, l'incapacità di scegliere una strada e l'impossibilità di non scegliere, il rancore verso la famiglia che non lo capiva, tutta la fatica di chi emigra da un villaggio con regole semplici a una città complessa e sconosciuta.
Io chiamavo loro e cercavo di rassicurarli: sarebbe tornato.
A poco a poco abbiamo cominciato a condividere anche altra vita e a dirci cosa pensavamo.
Loro ci erano passati, vent'anni prima e sapevano cosa vuol dire non essere più africani nè essere del tutto europei, conoscevano la fascinazione, l'allontanamento da casa, l'euforia, le cadute e le botte.
Non capivano che nessuno aveva protetto loro, da loro stessi, e che loro non potevano proteggere lui, da sè stesso: o forse lo capivano ed ero io a non comprendere che stavano solo facendo il loro mestiere di zii.
Sono state queste le prime cose che ci siamo dette nel giardino dell'ospedale Niguarda, e poi piano piano tutto il resto.


Cheikh è tornato a Milano la sera del giorno in cui Mor è partito, ha detto di aver capito male, credeva di riuscire a incontrarlo ma non l'ha mai più rivisto e lui ancora gli visita i sogni.
Mor è sepolto a Guediawaye.
Awa è tornata in Italia due anni dopo e io non ho più rivisto nemmeno lei.
Ma anche lei mi visita i sogni e mi manca e quando mi serve un abbraccio la chiamo con il pensiero e la memoria e lei viene a guardarmi negli occhi e a dirmi nene, è ora di crescere.

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