lunedì 13 dicembre 2010

il buttafuori innamorato

Mi chiamo Ibou, Makhtar, Bassirou, Ousseynou...
Sono quello alto, quello massiccio come una colonna di marmo che sbarra il passaggio all'ingresso del locale; sono quello magro come un giunco, in completo Armani e occhiali leggeri, sempre seducente...; anzi, sono quello cicciotto con gli occhi furbi e le mani ben curate, amico di tutti; e sono anche quello con l'aria un po' tonta, tutto muscoli, nero nerissimo, sguardo truce.


Faccio il buttafuori in Corso Como, ho il lavoro migliore che si possa desiderare per fare soldi, chi vuole entrare deve essermi amico e essermi amico significa soldi, chi vuole conoscere deve chiedere a me, chi va a caccia di gossip viene da me, chi vuole vivere la notte deve per forza passare da me – sono potente..non lo so..ho soldi...
Ho tutte le donne che voglio.
Tutti i buttafuori, in Corso Como, sono senegalesi.
Se passassi di lì non mi riconosceresti, noi sembriamo tutti uguali al primo sguardo e ci va bene così, quello che conta non è il vostro primo sguardo, ma il nostro.
Il mio sogno era quello di sposarmi e avere una famiglia, una famiglia europea, una moglie europea, trovo molto eleganti le tedesche – ma non so perchè dopo un paio d'anni di convivenza viene sempre fuori qualcosa che non va: l'ultima non voleva sposarmi e non voleva figli, un particolare burocratico insignificante, diceva, ma io non vedo il senso di una convivenza se non ci si sposa a un certo punto.
Così l'ho lasciata.
Sono tornato a vivere da solo, la mia casa ben arredata con lo stile imparato da tanti amici modaioli, il lavoro la notte, riposo la mattina, qualche commissione, un libro, un film al pomeriggio.
A un certo punto ho capito di avere quarant'anni, di non aver realizzato quel sogno di radici europee, ho sentito la voglia di tornare un po' a casa e ho preso tre mesi di vacanza.
Appena l'ho vista ho sentito che c'era qualcosa di speciale, non so trovare le parole per dirti cosa, non mi ero mai innamorato di una negra prima, anche quando tornavo in vacanza c'erano tante donne che mi volevano ma io non le ho mai desiderate.
Lei, l'ho voluta subito.
E lei mi ha accettato subito.
Ci siamo sposati dopo un mese e per due mesi siamo stati insieme.
Come succedono queste cose?
Sono tornato in Italia e sai, ho chiesto subito il ricongiungimento famigliare, avevo fretta: aspetto la risposta dalla Prefettura da sei mesi, ma i tempi sono lunghi, lo so benissimo, ma ora non so se ho più tanta fretta di farla partire, forse è meglio se resta lì.
Qualcosa è cambiato.
Ti dico questo, i primi tempi, quando la sentivo al telefono, lei mi diceva delle cose che mi facevano piangere, sul serio! Non sto scherzando, non le avevo mai sentite prima ed ero felice, totalmente felice.
Ma è cambiata, da qualche tempo.
È cambiata.
Forse si è innamorata di un altro.
Forse di mio fratello, che va spesso a trovarla.
La distanza è una brutta cosa.
A febbraio vado in Senegal un paio di mesi, ho già chiesto le ferie, voglio capire cosa succede: forse è solo la distanza che fa tutto più difficile e incomprensibile, ma voglio vedere con i miei occhi, parlarle, e poi deciderò cosa fare – non la lascerò, nel caso, ma può sempre restare lì.

Gli occhi gli si fanno cupi, nuvolosi, ascolto il suo racconto senza fiatare, con troppe parole in bocca, non c'è bisogno di dire niente.
Mi guarda, sa che lo capisco, guarda oltre me, sa che lo ascolto, sa che può dirmi quello che sente nel cuore senza filtri in un lungo dialogo che sale alle labbra solo quel tanto che basta a essere detto, ma che in realtà è un ininterrotto racconto interno che non ha quasi bisogno di sollecitazioni, che è stato più volte ripetuto nella testa fino a trovare questa forma tranquilla e rassegnata.
Un dialogo che va perfezionato, se l'intento è quello di nascondere la delusione e l'amore frustrato.
Gli offro una sigaretta, la prende, mi ringrazia, la tiene tra le dita senza accenderla, mi osserva accendere la mia, i suoi pensieri non sono lì.
Sorride quando riemerge, i suoi occhi quasi si scusano ma è solo buona educazione, voleva tanto parlarne che non si fermerebbe più e io non lo fermerei se potessi.
Sta facendo notte, in Corso Buenos Aires piove e si accendono le luci di Natale.
Quest'uomo parla di sé e di molti e di molte.

Parla di chi è solo e ha creduto di trovare una metà e poi quella metà si è persa da qualche parte – una metà che vaga dubbiosa e scalza e spettinata e cerca una mano che la prenda e la riporti a casa, confusa da leggi e vincoli, necessità economiche, pezzi di famiglie che vivono altrove, codici culturali non condivisi, nuovi codici culturali non ancora comprensibili.
Noi e loro, noi e basta.
Uniti, mescolati nella fatica di vivere a distanza, molti molti chilometri di distanza che approfondiscono le rughe e i solchi della solitudine, dell'insicurezza, della fragilità, delle difficoltà personali - uniti da un destino comune, in un mondo in cui il primo dovere famigliare non è più la codificata e vecchia fedeltà coniugale o il rispetto parentale, ma la pazienza, l'eterna attesa di mogli e mariti, di figli e figlie, di madri e padri che al telefono non si riconoscono più e quando si vedono si stringono a sconosciuti.
Io sono italiana: mio marito senegalese è lontano da un anno.
Il marito senegalese della mia amica italiana è lontano da quasi due.
La moglie albanese di un conoscente italiano non riesce a rientrare da otto mesi e non ha alcuna certezza di quando potrà avere il visto.
I gemelli della portinaia bengalese sono arrivati quindici giorni fa, dopo due anni e mezzo di attesa: lei è partita che erano due trottoli di tredici anni, a sedici hanno fatto richiesta, sono arrivati due ragazzoni con diritto di esercitare il voto e di telefonare alle hotline con carta di credito, ma la loro madre li ricorda piccoli e non riesce ad abituarsi al loro odore di maschi.
Noi e loro, noi e basta.

Motivi burocratici, motivi legali, motivi economici, motivi contingenti che fanno si che una relazione a distanza, gestibile altrimenti, diventi un incubo quando i chilometri sono troppi e quando non puoi accorciarla ogni volta che il tuo cuore lo richiede.
Maledette frontiere.
Pazienza, da coltivare con dedizione, certezze da mantenere salde, amore e cura che passano per i fili del telefono, adolescenti che crescono con la sola guida di una tessera telefonica internazionale.
I codici di riconoscimento dopo un po' saltano.
Dici “ciao” e si sente “vaffanculo”, dici “amore” e si sente “chi sei?”.
Chi sei amore? Ciao, vaffanculo.

Un giorno ho sentito forte la sua mancanza, fortissimo, ero per la strada, pioveva, tornavo da alcune spese, e l'ho chiamata, era un sentimento immenso, come posso spiegartelo? Non lo so, non sapevo trovare le parole ero bloccato, forse mi sono spaventato e sono stato un po' aggressivo con lei.
Da allora non è più la stessa cosa, lei si è chiusa e ogni volta che ci sentiamo va un po' peggio.
Forse la distanza fa danni che lo stare insieme scioglierà, o forse ha fatto danni irreparabili e lei è andata altrove a cercare compagnia e conforto dimenticandomi dall’altra parte del mare.
A volte litighiamo, senza motivo.
A volte fa cose che non capisco, va a parlare con i miei famigliari, dice che l’ho abbandonata, che non voglio farla partire – le ho detto che deve parlare con me, dei nostri problemi, ma come posso pretendere che una voce nel telefono la tranquillizzi davvero?
Mio fratello è lì, presente, attento, occhi negli occhi, un braccio pronto a sorreggerla se scivola.
Forse lui cerca di portarmela via, forse invece prova ad aiutarmi, ma come lo capisco, al telefono?
Le uniche certezze che puoi avere devi dartele da solo e a volte scopri che sono solo illusioni, buone per non impazzire.
Adesso non so più se voglio che lei venga a stare qui, prima devo vederla, capire, guardarla negli occhi, capire cos’è successo.

Ciao, amore, chi sei?



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