prendo in prestito da Chiara Barison, un nuovo pezzo sulla separazione e sul cuore elastico delle donne e degli uomini che vivono in paesi di emigrazione, un pezzo bellissimo.
ma non è solo una faccenda di emigrazione, anche noi siamo gente migrante, e da noi si dice "lontano dagli occhi lontano dal cuore"
in Africa non si dice, non si pensa, questo proverbio non esiste.
[...] No, nessun paese mi aveva tenuta a terra come il Senegal. Ed è qui, in questa terra che ho ripensato la separazione. Da egoista impongo le mie fughe ma mal sopporto quelle di chi amo. Vivo le partenze con dolore, strappi laceranti che rimarginano lenti. E il mio Senegal, fatto da persone speciali non avrebbe potuto essere tale senza di loro. Sì. Questo è davvero il posto per animi egoisti. Le persone non possono partire. I senegalesi non hanno il diritto di viaggiare come noi. In molti casi saranno obbligati alla prigionia nei loro stessi confini. No. Non sono la sola di egoista. Ci sono un sacco di europei fragili ed egoisti che vengono qui, forti della possibilità di andarsene in ogni momento, ma sicuri che il mondo che si costruiranno rimarrà lì, fermo, dov'è stato costruito. Dipendente in un certo senso dalla nostra presenza o dalla nostra assenza. E allora i senegalesi amano, condividono, gioiscono, soffrono e poi vedono partire e tornare e ancora partire e poi tornare e ripartire e mai più tornare. Il cuore, diventato ormai elastico, si contrae e si rilassa. Qui non è permesso soffrire per una separazione, per un viaggio, altrimenti sei destinato a morire. Qui si vive la speranza. La speranza che tanto prima o poi chi parte tornerà; che la persona amata continui ad amare per tutto il tempo della sua assenza; che magari un giorno aiuterà anche l'amato a partire; che un lieto fine, cazzo, quello sì dovrà arrivare. Rimane il telefono e poi Skype. Gli appuntamenti sono di fronte ad un PC e sempre con il cuore in gola, troppa la paura che non vi sia corrente o che dall'altra parte del telefono la persona non risponda o che risponda per dire: “Scusa ma è meglio se ti fai la tua vita”. Che brutto scherzo del destino finire a nascere in un paese dove sei costretto alla prigionia. E i senegalesi, come i detenuti, guardano fuori dalle sbarre e sognano, immaginano posti lontani e vite differenti e meditano infinite vie di fuga sperando di liberarsi dalle catene, per scoprire, imparare, sperare, ritrovare persone amate lontane o, più semplicemente, loro stessi. E poi, come in carcere, ci sono le visite, persone care, libere, che arrivano a tratti per portare piatti caldi, il tempo di un istante e poi via, di nuovo. E i senegalesi aspettano e vivono separazioni quotidiane. Un'angoscia soffocante e singhiozzi e lacrime chiusi nelle camere con vecchie avvolte in veli colorati che accarezzano volti adolescenti dicendo che questo è normale, che prima o poi le persone ritorneranno. E' no, cazzo, questo non è normale. Non c'è niente di normale in tutto questo dolore lento e prolungato.
Ripeto, da egoista, ho sempre desiderato che il mio piccolo mondo senegalese restasse immutato nel tempo, che persone e luoghi rimanessero lì dove li lasciavo ad ogni partenza perché in fondo, non era nemmeno il Senegal in sé che amavo, ma le persone che avevo incontrato e che avevano reso magico e speciale questo posto. E invece, anno dopo anno, come una senegalese, facevo i conti con partenze impreviste e distacchi e separazioni. E non capivo nulla, all'inizio. La gioia delle persone di poter fuggire, la preparazione di un viaggio, spesso nascosta, e il lento, massacrante conto alla rovescia, verso quel giorno in cui avrei visto partire un amico sapendo che forse non l'avrei più rivisto. Chi parte spesso non può tornare, sarà il destino a decidere per lui se e quando. Nel peggiore dei casi nessuno dice niente, solo una telefonata, come quella di Aly: “Ciao Chiara, sono Aly. Sono in Belgio. Volevo dirti che sei stata una delle persone a cui ho voluto più bene. Non ti dimenticherò mai”. E il mio stupore, ma come, Aly, uno dei miei più cari amici, ieri ridevamo assieme a Sandaga e oggi come, come puoi telefonarmi e dirmi che te ne sei andato e io non ho mai capito nulla mentre tu stavi preparando la fuga? E' dura. E penso allora a chi lo vive quotidianamente, alle madri, ai padri, alle fidanzate. Che dolore maggiore sarebbe stato se Aly, invece che un amico, fosse stato il mio promesso sposo? Come avrei potuto sopravvivere la notte? Questo è il Senegal. E questa l'ingiustizia taciuta, quotidiana, normale che invece non è normale. E i senegalesi accettano e mandano giù e accolgono e covano la rabbia dentro il loro cuore, per chi viene ed è libero e che poi magari se ne innamorano pure, di chi viene, del bianco e sono costretti pure a dover giustificare il loro amore dalle paure paranoiche di chi pensa sia solo per interesse, dalla gelosia, dall'invidia, dalla partenza di chi si ama e che ancora, magari, preso dalla paura di una fuga dell'altro, scappa prima che sia troppo tardi. Tanti europei egoisti sono stati accolti in Senegal, uomini e donne che non vogliono liberare gli amati per paura di scoprire se l'amore che li lega sia vero o meno, accecati dalla paura che chi si ama scappi, finalmente liberato da un permesso di soggiorno tanto atteso. [...]
Dakarlicious è il blog di Chiara
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