mi fa piacere parlavi un po' di me, le persone che vedo qui al campo sono sempre le stesse, voi chi siete? perchè vi interessate a me?
fa niente, vi racconterò lo stesso qualcosa
ho spesso fame qui, quasi sempre una fame sottile, persistente come un mal di gola, ma nulla in confronto a quello che sento raccontare da casa.
è strano chiamare casa un posto che conosco così poco, in realtà io sono cresciuta qui, a Shegrab, ma nessuno chiamerebbe Shegrab "casa".
in Eritrea c'è una povertà assoluta e un continuo stato di guerra: è per la guerra che la mia famiglia è scappata.
abitiamo nel capo profughi di Shegrab, nello stato del Kassala, in Sudan.
anche in Sudan c'è la guerra, ma qualche anno fa qualcuno ha deciso che qui era più sicuro vivere: ha recintato un enorme terreno, ha messo a disposizione molte piccole tende color terra che si confondono con il deserto e i cespugli di sterpi, ha allestito serbatoi per l'acqua, e ha fatto arrivare le persone.
quando sono finite le tende, sono cominciate le capanne di paglia alla maniera eritrea, poi le baracche e dopo le baracche i recinti di rami dove le persone vivono, se così si può dire, senza sapere fino a quando.
la gola, la gola brucia sempre per colpa del vento e della polvere
il destino di ciascuno è nelle mani dei funzionari dell'UNHCR, delle associazioni internazionali per la cooperazione, dei gruppi della Chiesa che vengono periodicamente a visitarci, della carità altrui.
se qualcuno dall'altra parte del mondo decide di mandare dei soldi, qualcuno qui avrà un vestito nuovo, oppure seguirà un corso da falegname, oppure riceverà una protesi per la gamba saltata su una mina o semplicemente due pentole o un lenzuolo, altrimenti nessuno fa niente e si aspetta.
le ragazze vengono violentate, quel poco che hai ti viene rubato, non c'è difesa, nel campo
la scuola per le ragazze non c'è stata per 25 anni, solo l'anno scorso l'hanno finalmente costruita e così io non ho un'istruzione perchè ormai sono troppo grande per frequentarla.
ho vent'anni, mi chiamoTekle.
mio marito si chiama Yemane.
lui è in Italia.
qui arrivano circa 2000 persone al mese, dall'Eritrea, dove la sola attività di rilievo è la guerra, la sola spesa è quella per la difesa: tutti gli uomini devono fare i militari, l'economia è un concetto insensato, non c'è nulla da costruire e nulla da sperare.
qui a Shegrab finiscono quelli che cercano di attraversare il Sudan per andare in Egitto e poi da lì in Libia e prendere una nave per l'Europa: questo viaggio è illegale, passare la frontiera tra Eritrea e Sudan è illegale, se le autorità sudanesi ti trovano ti possono rimandare in Eritrea dove ti aspettano cinque anni di prigione, oppure ti mandano qui, dove la vita è fatta di attesa.
anche io aspetto.
oggi aspetto di parlare con mio marito.
Yemane è in Italia da tre anni, lui è riuscito a fare il viaggio, lavora bene.
ci conosciamo da quando eravamo piccoli, siamo dello stesso quartiere, sapevamo da sempre che saremmo diventati marito e moglie e ci siamo sposati qui al campo, l'anno scorso: lui è venuto qui apposta, e poi è ripartito senza potermi portare con sè.
mi parla dell'Italia, del freddo limpido dell'autunno, della casa che ha affittato per noi con un divano letto e la televisione prima di dormire, mi parla del suo lavoro e del tram per arrivarci, mi racconta tantissime cose che non so quasi nemmeno immaginare, anche se le ho viste in televisione.
un mondo senza polvere rossa e vento secco, senza teli che sbattono e code per l'acqua!
le mie giornate di attesa sono piene dei racconti di Yemane, immagini che diventeranno reali, parole con suoni e odori, e chissà che effetto farà.
è un anno che aspetto, ormai dovrebbe mancare poco, anzi sono sicura che mi ha fatto dire di chiamarlo perchè ha qualche buona notizia.
lo sento nella sua voce che gli manca la sua amica di sempre, non siamo mai stati separati a lungo, da quando eravamo piccoli.
anche a me lui manca molto.
va bene, ora lasciatemi andare, devo fare la coda: forse tra qualche settimana Yemane mi farà avere un cellulare, me l'ha promesso, ma poi qui non ci sono spesso le linee e allora tanto vale rassegnarsi alle code.
...
ecco, ho parlato con mio marito.
sono già sei mesi che ha fatto domanda per farmi avere un visto.
gli hanno detto che ci vorranno ancora due anni prima di avere il permesso di farmi entrare.
non so perchè sia così.
non capisco le leggi italiane.
Yemane mi ha spiegato che sono lenti perchè non hanno abbastanza personale che controlla tutte le domande: credevo fossero cose che succedono solo qui al campo, e non a Milano, quella che alla televisione chiamano la Capitale della Moda.
sono così abituata ad aspettare che non sento dolore.
ma Yemane è arrabbiato, la sua voce è tesa.
lui vuole la sua famiglia con sè.
vuole fare un bambino.
vuole sentirsi sicuro e stabile in un posto libero.
ha attraversato il deserto per questo, e il mare.
non parla mai di quel viaggio, credo sia stato terribile.
sono anni che ogni mattina si alza alle cinque per costruire il nostro futuro.
se adesso gli dicono che deve aspettare altri due anni non so davvero come potrà reagire.
sono preoccupata.
così gli tolgono la speranza
sembra però che non ci sia niente da fare
io sono malata, niente di grave, i mie reni non funzionano bene, dovrei essere operata e qui non è possibile.
io sono rifugiata, dovrei avere una strada più facile, da quello che dicono
ma sono rifugiata in Sudan, non in Italia
e nemmeno Yemane è rifugiato, ma solo normalmente immigrato
così dicono...
e poi dicono che le pratiche sono messe in un computer e non c'è la possibilità di farne passare davanti una per emergenza
suona tutto così freddo
... ...
credetemi, nulla è freddo qui in mezzo al deserto!
le mie reni scoppiano
il cuore di mio marito scoppia
il mio utero è sterile per l'attesa, l'infinita attesa
l'attesa che uccide
un computer mi dice che devo aspettare
non sento nemmeno dolore
solo stupore
gli uomini sono talmente indifferenti!
un computer si prende la colpa, una macchina contro cui non si può nulla
nessuno ha colpa
conoscevo solo la violenza della guerra e quella del campo
fino ad oggi
oggi
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