expo
nutrire il pianeta
il cibo
la cultura che si veicola attraverso il cibo
il cibo è cura, affetti, legami, tradizioni
credo che questo sia un concetto decisamente universale e incontrovertibile
e spesso, quando si parla di sforzi per l'integrazione tra italiani e migranti, ci si mette a tavola.
il principio è più che condivisibile
credo che dare da mangiare sia l'atto d'amore in assoluto più grande
ma
quante persone conoscete che mangiano kebab anche a colazione e che votano con convinzione un partito razzista che ha più volte (strumentalmente) cercato di far chiudere i ristorantini turchi e che grida beceramente che gli immigrati bisogna aiutarli a casa loro?
e quante ne conoscete che mangiano cinese, giapponese, eritreo senza nemmeno sapere dove mai siano questi esotici paesi?
molto di tutto ciò è merito di anni e anni di sforzi movimentisti di sinistra volti all'integrazione, che ci hanno insegnato ad amare gli involtini primavera, il pesce nigeriano e la yucca e il sushi insieme alle percussioni, al reggaeton e a Oum Kalsoum, senza però aiutarci minimamente a condividere tra persone diverse le differenze reali.
ci siamo messi a tavola per conoscerci, ma non ci siamo conosciuti affatto perchè non abbiamo mangiato insieme, ci siamo limitati a mangiare il cibo gli uni degli altri
è mancato l'amore, in questo atto
non basta mangiare uno il cibo dell'altro per aprire uno spiraglio di coesistenza.
mangiare piatti altrui può annaspare verso una superficiale integrazione, ma visti i risultati e la mancanza di altri gesti, oggi posso dire che non è l'integrazione - che aggiunge, integra, l'esistente con elementi nuovi e li fa suoi - che mi interessa.
mi interessa la coesistenza.
quella cosa per cui oltre a recepire le reciproche novità, integrandole, ci si rispetta e ci si permette di viversi a fianco in pace.
è ora di passare dalle cene multietniche in cui un gruppo di donne nere che non parlano una parola di italiano stanno in cucina e grupponi di famiglie italiane benintenzionate mangiano con le mani, financo! sui tavoli della mensa dell'oratorio, al dialogo, quello vero, quello che passa prima per il rispetto e poi per la valutazione della possibile coesistenza delle differenze.
io sono arcistufa delle cene multietniche, quando poi a scuola le mamme latine parlano solo con quelle latine e quelle arabe solo tra loro e le italiane che sono più svelte e hanno più strumenti e magari sono anche più benestanti e hanno più tempo (ma non sempre) fanno le rappresentanti di classe.
una cena, se non mangiamo davvero insieme, allo stesso tavolo, condividendo il cibo e raccontandoci un pezzetto di vita, non è null'altro che un accumulo di calorie e sapori, niente a che vedere con un gesto sociale e politico che vorrebbe essere significativo.
vi faccio un altro esempio
in questi giorni ho avuto ospiti due ragazze: una modella norvegese vegana necessariamente attenta a quello che mangia e una americana vegana crudista.
in tanti mesi di B&B, con gli altri ospiti, c'era sempre stato il momento in cui offrire un caffè dava il via alla chiacchiera - un gesto automatico, quante nuove amicizia sono nate dicendo ci prendiamo un caffè? - e non mi ero mai resa conto davvero di quanto mi fosse difficile iniziare un dialogo affettuoso senza un caffè.
l'ho imparato con loro.
frasi inizialmente timide, poi via via più sicure, senza lo scudo del caffè.
noi mettiamo a tavola per parlare e guardarci negli occhi.
è una cosa molto bella.
e mettiamo a tavola anche per prendere tempo e studiarci.
è altrettanto bello e confortante.
ma è profondamente sbagliato pensare che questo basti o che se questo non c'è allora non c'è altra possibilità.
passiamo dalle cene multietniche forzate, allo sforzo, concreto, di fare amicizia con una mamma, una qualunque tra quelle della scuola, con la pazienza di capire il suo italiano imperfetto e la sua scelta di portare l'hijab e magari la sua riservatezza e i suoi occhi bassi che a volte poco si sposa con la nostra caciaronità?
dopo aver fatto questo, allora mettiamoci a tavola.
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