da una nota di Chiara Mame Diarra Barison pubblicata su Facebook:
''Secondo te è normale che io ami questo paese così tanto? E' possibile che io, nata e cresciuta in Italia mi senta a casa a Dakar piuttosto che a Padova, la mia città??!?''.
No, la mia non era una domanda fatta così a caso, tanto per farsi due risate tra amiche. Avevo davvero bisogno di un consiglio esterno, per questo ho chiesto un parere a Simona. La mia era davvero una necessità, stanca di tutte le persone e dei loro giudizi: Chiara l'infantile, Chiara l'incosciente, Chiara la pazza, Chiara l'istintiva.
'Ma come??!! Ma davvero vuoi trasferirti in Senegal? Tutti da lì cercano di emigrare e tu invece ci vuoi andare a stare??!!' Quante volte me lo sono sentita dire. Noiosi. Banali.
I senegalesi non fuggono dalla loro terra, né scappano perché non amano il loro paese o perché qui non stanno bene. I senegalesi partono perché vogliono scoprire ciò che c'è al di fuori del Senegal.
Chiusi in gabbia da una politica mafiosa fatta di visti, frontiere chiuse e nuove forme di colonizzazione, essi si ingegnano per darsi nuove opportunità e per fare ciò che a noi è permesso di diritto.
Noi viaggiamo, ci trasferiamo, ci spostiamo, andiamo, torniamo. Perché loro non dovrebbero volere lo stesso? Questo vuol dire scappare?
Il Senegal è tutto. E' niente. E' tanto. E' poco. E' amore. E' odio. Nessuna via di mezzo. Ma è vita, quella che da noi non ha più odore, né colore.
“Sì, è normale che tu ti senta più a tuo agio in Senegal e sai perché?” mi ha risposto Simona fermandosi per un istante che per me è diventato infinito. “Semplicemente perché il Senegal ha bisogno di te e tu senti questo richiamo”.
Custodisco queste parole gelosamente nel mio cuore ed ogni tanto le ripeto con forza a me stessa. ''Il Senegal ha bisogno di me''. Non l'avevo mai vista da questo punto di vista, poi rifletto, è questo paese che ha bisogno di me o sono io che ho bisogno di questo paese? La linea è davvero sottile. Di una cosa sono sicura, l'Italia mi aveva messo in un angolo già da un bel pezzo, come donna, come giovane, come ricercatrice. Nessuna possibilità, nessun futuro. Speranze e sogni? Si sono sgretolati pian piano in mano ad un governo e ad una società dispotica e imponente. Massificante.
Il Senegal, al contrario, ha accolto una Chiara persa, confusa, disillusa; ha aperto la porta senza far rumore a Chiara donna, Chiara giovane, Chiara ricercatrice, Chiara italiana, cullando dolcemente sul palmo della sua mano, i miei sogni e le mie speranze
''Secondo te è normale che io ami questo paese così tanto? E' possibile che io, nata e cresciuta in Italia mi senta a casa a Dakar piuttosto che a Padova, la mia città??!?''.
No, la mia non era una domanda fatta così a caso, tanto per farsi due risate tra amiche. Avevo davvero bisogno di un consiglio esterno, per questo ho chiesto un parere a Simona. La mia era davvero una necessità, stanca di tutte le persone e dei loro giudizi: Chiara l'infantile, Chiara l'incosciente, Chiara la pazza, Chiara l'istintiva.
'Ma come??!! Ma davvero vuoi trasferirti in Senegal? Tutti da lì cercano di emigrare e tu invece ci vuoi andare a stare??!!' Quante volte me lo sono sentita dire. Noiosi. Banali.
I senegalesi non fuggono dalla loro terra, né scappano perché non amano il loro paese o perché qui non stanno bene. I senegalesi partono perché vogliono scoprire ciò che c'è al di fuori del Senegal.
Chiusi in gabbia da una politica mafiosa fatta di visti, frontiere chiuse e nuove forme di colonizzazione, essi si ingegnano per darsi nuove opportunità e per fare ciò che a noi è permesso di diritto.
Noi viaggiamo, ci trasferiamo, ci spostiamo, andiamo, torniamo. Perché loro non dovrebbero volere lo stesso? Questo vuol dire scappare?
Il Senegal è tutto. E' niente. E' tanto. E' poco. E' amore. E' odio. Nessuna via di mezzo. Ma è vita, quella che da noi non ha più odore, né colore.
“Sì, è normale che tu ti senta più a tuo agio in Senegal e sai perché?” mi ha risposto Simona fermandosi per un istante che per me è diventato infinito. “Semplicemente perché il Senegal ha bisogno di te e tu senti questo richiamo”.
Custodisco queste parole gelosamente nel mio cuore ed ogni tanto le ripeto con forza a me stessa. ''Il Senegal ha bisogno di me''. Non l'avevo mai vista da questo punto di vista, poi rifletto, è questo paese che ha bisogno di me o sono io che ho bisogno di questo paese? La linea è davvero sottile. Di una cosa sono sicura, l'Italia mi aveva messo in un angolo già da un bel pezzo, come donna, come giovane, come ricercatrice. Nessuna possibilità, nessun futuro. Speranze e sogni? Si sono sgretolati pian piano in mano ad un governo e ad una società dispotica e imponente. Massificante.
Il Senegal, al contrario, ha accolto una Chiara persa, confusa, disillusa; ha aperto la porta senza far rumore a Chiara donna, Chiara giovane, Chiara ricercatrice, Chiara italiana, cullando dolcemente sul palmo della sua mano, i miei sogni e le mie speranze
Ho ripensato alle parole di Matador di qualche mese fa, nel suo studio, 'perché ho deciso di non emigrare? Perché l'Europa non ha bisogno di me, il Senegal sì. Qui ci si deve ancora impegnare per costruire qualcosa, per creare, per innovare'.
[...]
Ieri un amico di Sandaga mi ha chiesto: ''ma gli italiani sono felici in Italia? Sono contenti della loro attuale situazione?''. Sono rimasta in silenzio. Siamo un popolo felice? Siamo un popolo che sta bene?
Non saprei rispondere, quello che posso dire è che siamo un paese disorientato e alla ricerca di sé stesso. Confuso. Ed in questa confusione perdiamo il nostro tempo cercando di rispondere ai nostri mille infiniti dubbi, 'ma se partissi? Ma se tentassi fortuna all'estero?'. 'Ma, se, forse' che si trsformano in 'no, non è possibile, troppo complicato' e ci ritroviamo infelici in vite che sono diventate una sofferente sopravvivenza. Per sentirci meglio usciamo a comprare qualcosa, una maglietta nuova, un paio di scarpe, riempiamo gli armadi e svuotiamo il cuore e l'anima. Ci attacchiamo agli oggetti, accumulandoli, rimanendo sempre più soli, in una sorta di tribale guerra tra poveri, gioiamo della sofferenza altrui, limitando le relazioni, diventando sempre più egoisti e diffidenti. L'altro è un nemico. Le nostre reti sociali si diradano e rimaniamo soli, con i nostri inutili oggetti.
Anche io ero diventata così, un'anima materialista e triste. E all'imporvviso Dakar mi ha salvato. Io abituata alla solitudine mi sono trovata nel bel mezzo di un'esplosione di gente, odori, rumori. Concentrata solo su me stessa ho dovuto convivere con la gente, imparando a rimettermi in gioco come persona, a propormi, a reinventarmi, a farmi conoscere.
Ho imparato il piacere del contatto, delle relazioni, del dialogo; la gioia di una piccola cosa, una passeggiata, le onde del mare, il tramonto, osservare i rami di un baobab. Ho ricoperto che le reti sociali salvano l'uomo, che la collettività funge da paracadute quando stai per mollare.
Ho imparato che condividere può essere una piacevole scoperta, che la mattina, non mi costa nulla comprare un pane in più e darlo al primo mendicante che incontro. E questo e' un dono, è ricchezza.
Io, teledipendente ho scoperto che la televisione non è una necessità, molto meglio le serata su un muretto a discutere, ascoltando i canti dei baye fall e guardando la gente andare e venire.
Credo di essermi innamorata. Sì, mi sono innamorata del Senegal, ne sono certa ogni volta che l'aereo atterra perché il cuore è stretto in una morsa; quando sono a Sandaga con i miei libri e studio in mezzo al caos del mercato; quando cammino per Pikine e le persone mi salutano, mi fermano per parlare; qui mi chiedono ancora come sto. Qui sento ancora 'Chiara' (nelle sue mille versioni Diarra, Ciara) e io mi sento parte di una comunità.
So che qui non morirò sola, alla mia porta c'è e ci sarà sempre qualcuno che bussa, nella mia stanza sempre amici con cui condividere gioie e dolori.
[..]
Ieri un amico di Sandaga mi ha chiesto: ''ma gli italiani sono felici in Italia? Sono contenti della loro attuale situazione?''. Sono rimasta in silenzio. Siamo un popolo felice? Siamo un popolo che sta bene?
Non saprei rispondere, quello che posso dire è che siamo un paese disorientato e alla ricerca di sé stesso. Confuso. Ed in questa confusione perdiamo il nostro tempo cercando di rispondere ai nostri mille infiniti dubbi, 'ma se partissi? Ma se tentassi fortuna all'estero?'. 'Ma, se, forse' che si trsformano in 'no, non è possibile, troppo complicato' e ci ritroviamo infelici in vite che sono diventate una sofferente sopravvivenza. Per sentirci meglio usciamo a comprare qualcosa, una maglietta nuova, un paio di scarpe, riempiamo gli armadi e svuotiamo il cuore e l'anima. Ci attacchiamo agli oggetti, accumulandoli, rimanendo sempre più soli, in una sorta di tribale guerra tra poveri, gioiamo della sofferenza altrui, limitando le relazioni, diventando sempre più egoisti e diffidenti. L'altro è un nemico. Le nostre reti sociali si diradano e rimaniamo soli, con i nostri inutili oggetti.
Anche io ero diventata così, un'anima materialista e triste. E all'imporvviso Dakar mi ha salvato. Io abituata alla solitudine mi sono trovata nel bel mezzo di un'esplosione di gente, odori, rumori. Concentrata solo su me stessa ho dovuto convivere con la gente, imparando a rimettermi in gioco come persona, a propormi, a reinventarmi, a farmi conoscere.
Ho imparato il piacere del contatto, delle relazioni, del dialogo; la gioia di una piccola cosa, una passeggiata, le onde del mare, il tramonto, osservare i rami di un baobab. Ho ricoperto che le reti sociali salvano l'uomo, che la collettività funge da paracadute quando stai per mollare.
Ho imparato che condividere può essere una piacevole scoperta, che la mattina, non mi costa nulla comprare un pane in più e darlo al primo mendicante che incontro. E questo e' un dono, è ricchezza.
Io, teledipendente ho scoperto che la televisione non è una necessità, molto meglio le serata su un muretto a discutere, ascoltando i canti dei baye fall e guardando la gente andare e venire.
Credo di essermi innamorata. Sì, mi sono innamorata del Senegal, ne sono certa ogni volta che l'aereo atterra perché il cuore è stretto in una morsa; quando sono a Sandaga con i miei libri e studio in mezzo al caos del mercato; quando cammino per Pikine e le persone mi salutano, mi fermano per parlare; qui mi chiedono ancora come sto. Qui sento ancora 'Chiara' (nelle sue mille versioni Diarra, Ciara) e io mi sento parte di una comunità.
So che qui non morirò sola, alla mia porta c'è e ci sarà sempre qualcuno che bussa, nella mia stanza sempre amici con cui condividere gioie e dolori.
[..]
Chiara, Mame Diarra, un'italiana senegalese. E con le mie cuffie e il mio mp3 mi sono seduta ai piedi del mio albero ed ho acceso la musica.
1 commento:
Solo ora ho letto questo post... solo oggi mentre sono in pausa pranzo.. momento anche questo passato davanti al PC...
Mi risuona tanto... sembra avermi letto dentro ... sembra descrivere la mia vita... sembra parlasse di me e di come io sopravvivo in Italia e di come continuo a dirmi che questo non è il mio mondo ma da cui non riesco ad andar via...
BRAVA CHIARA ! Hai seguito il tuo cuore, hai avuto coraggio, sei stata forte !A questo punto mi verrebbero tante domande (alcune molto sciocche) da farti ma... Spero che un giorno, anche io troverò la forza e il coraggio di cambiare ... nel frattempo vi leggo, mi ascolto, apro sempre di più mente e cuore e mi metto a confronto ... Chissà :)
Intanto ... ottima giornata :)
Stef (MaRema)
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