Ho trascorso il mese di dicembre in Senegal. Avevo previsto di passare le feste nel paese africano riposandomi e facendo qualche ricerca etnografica. Il tutto con molta calma; e invece... Arrivato a Dakar il 7 mattina scopro che tre giorni dopo ci sarebbe stata l’inaugurazione del FESMAN, il “Black world festival”, terzo “Festival International des artes négres”: avrei dovuto aspettare 20-25 anni per rivederlo per cui non potevo lasciarmelo scappare. Infatti, il primo risale al 1966 sempre a Dakar - del quale la RAI trasmise una serie di documentari storici di Folco Quilici “Malimba”-, poi vi fu quello del ’77 a Lagos in Nigeria e l’ultimo nuovamente senegalese. Dakar è di per sé una città cosmopolita, ma in quei giorni poi, per le stade si incontrava il mondo. Ciò mi rattristò parecchio perché venni a sapere dagli stranieri incontrati che nei loro paesi (paesi europei, asiatici, nord e sud americani, ecc), i media avevano dato il giusto rilievo a un festival così importante. Io invece mi trovavo a Dakar per caso perchè nella nostra povera Italietta, obnubilata dal velinismo e dai grandifratelli invece, su questa notizia, regnò il silenzio più assoluto.
Brevemente, il programma del FESMAN comprendeva: Architettura, Arte antica, Arte moderna, Artigianato, Urban-culture, Design, Cinema, Teatro, Danza, Letteratura, Musica e Moda. Tutto i rigorosamente preveniente dal Mondo nero, africano e della diaspora: afroamericani, USA e del Sud America, paesi afrocaraibici e artisti e professionisti di origine africana che vivono altrove. In altre parole il meglio della produzione artistica mondiale con nomi famosissimi di ogni settore.
Gli eventi si svolsero in 4 localtà diverse: Ziguinchor, Kaolakh, Saint Louis e, ovviamnte nella capitale Dakar, con il maggior numero di eventi. Al cinema venne dedicato un tendone enorme alla maniera dei circhi dove proiettavano ininterrottamente opere cinematografiche. Alle esposizioni, locali museali o altri edifici appositamente allestiti. Per tutto il mese le mattinate vennero dedicate a tavole rotonde, conferenze, incontri coi giornalisti; poi nel primo pomeriggio, iniziavano i work-shop delle varie discipline: lezioni per imparare a suonare alcuni degli innumerevoli strumenti musicali tradizionali africani, l’arte della tessitura, del Batik, dell’intessere paglia con altre fibre, la pittura su vetro, la scultura del legno, la danza, e così via. Dalle 19,00 invece iniziavano concerti che terminavano a tarda notte. Il programma era quasi sempre ricchissimo: frequentemente si arrivava ad avere più di 10 concerti al giorno dislocati nelle varie parti della città: le sofisticate performance afro-jezzistiche di Ray Lema, Richard Bona o Omar Sosa avvenivano in luoghi allestiti come veri teatri come il contestatissimo “Monument de la Renaissance”, o la Maison de la Culture dedicata al multiforme genio Duta Seck dove, circondato da una rigogliosissima verzura, ho assistito a concerti e danze. Gli spettagoli più popolari, invece, venivano tenuti in palace de l’Obelisque, dove immersi in un oceano di persone (ogni sera l’affluenza era di 12-15.000 persone), tra venditrici e venditori di panini ripieni, frittelle dolci, bibite, arachidi zuccherate o salate, the, caffè, cafè Touba (addizionato a una spezia che chiamato giàr dal piccante aroma, tra i chiodi di garofano e la noce moscata), si rimaneva in piedi, lasciandosi trascinare dalle “onde” del pubblico. Oppure si andava al Sorano, il teatro calssico per eccellenza dove la ricca borghesia sfoggiava abiti fantasiosi.
L’inaugurazione avvenne il 10 dicembre al Stadio Léopold Sédar Senghor con una cerimonia sontuosa e emozionante.
Decine di migliaia di persone inneggiavano ai personaggi che si alternavano con danze e musiche; sullo sfondo uno schermo di almeno 300 metri di lunghezza riportava alcuni dettagli dello spettacolo oppure elementi della scenografia. Non ho parole per spiegare la bellezza delle immagini che si sono succedute: ma posso proporvene qualcuna; peccato che non esistano ancora giornali dov’è possibile inserire filmati.
Tra le molte mostre ho visitato l’Exposition Arts D’Afrique al Musee Theodor Monod, moderno esempio di architettura in stile sub-sahariano (come la celebre moschea di Djennè, Mali, dove mi sono trovato vis à vis con Lucy (l’ austrolopitecus afarensis scoperto in Etiopia nel 1973) di cui tutti, credo, ne abbiamo letto la storia: uno scheletrino da niente!, solo allora mi ricordai che in un primo tempo gli antropologi, a causa della sua taglia minuta, supposero di aver ritrovato il resti di un bambino. In quel corpicino e nel cranio di Tumai, esposto lì accanto, era rinchiusa tutta la nostra storia. Tutti noi, di ogni colore, nazionalità, fede religiosa o politica diventiamo fratelli; tutti lontani parenti di Lucy, la nostra nonnina!
Ho poi avuto mdo di apprezzare l’arte moderna di Afer un giovane artista togolese che espone all’isola di Gorè; io e un mio amico abbiamo acquistato un paio di sue opere.
Cubismo:A sinistra una scultura di Brancusi e a destra una maschera Fang (Gabon) |
Tutto ciò permise all'uomo europeo di scoprire la sintesi della forma, una dimensione del tutto nuova della forma fisica, così come più avanti avrebbe scoperto il concetto di swing e dell'"entrare in levare", fondamento della musica Jazz, grande madre di tutta la musica contemporanea.
Tra i numerosi concerti ho particolarmente apprezzato m quello dell’afro-jezzista Richard Bona che conoscevo solo su CD; Richard ci ha intrattenuti con un impagabile coktail di virtuosimi e giochi di... humor musicale, se così si può dire. Poi l’immenso Toumani Diabatè che riesce a mettere insieme il suono del Kora con le armonie jazz. Per chi non lo sapesse il Kora è uno strumento del tipo arpa a corda, tradizionale dell'etnia Mandinka, diffusa in buona parte dell'Africa Occidentale . La cassa di risonanza è costituita da una mezza zucca svuotata e ricoperta di pelle di animale. Sulla cassa è infisso un manico da cui partono 21 corde che si inseriscono, in due file parallele rispettivamente di 10 ed 11 corde, su di un ponticello perpendicolare al piano armonico. Alcuni kora moderni hanno alcune corde aggiuntive (fino a quattro) dedicate ai bassi. Esistono anche varianti di kora fino ad un massimo di 28 corde. Prevede quattro diverse accordature, la cui tipologia dipende dal brano che si vuole eseguire.
Eh sì, questi Africani ne sanno molto di musica. Basta pensare che la maggior parte dei “nostri” strumenti hanno un antenato in Africa: il Balafon è una sorta di xilofono, il Riti è un violino a una corda da suonare con l’archetto; poi vi sono strumenti a corda di ogni tipo: chitarre, arpe, lire con una varietà infinita di denominazioni, di modelli e numero di corde. E gli strumenti a fiato come flauti e trombe e infine, com’è più uniformemente risaputo, l’ineguagliabile varietà di tamburi. Questo, perchè l’Africa ha avuto trascorsi di grande cultura, di nobiltà e ricchezza. Basta ricordare Mansa Musa, il re del Melli (situato grosso modo nell’attuale Mali) che, pellegrino alla Mecca nel 1324, distribuì doni in oro tanto generosi da far svalutare il prezioso metallo sui mercati per quasi 10 anni. Infatti Nell'Atlante Universale Catalano (carta geografica redatta nel1375), l'imperatore del Mali, Mansa Musa, é raffigurato assiso sul trono nel centro dell'Africa Occidentale con in mano una pepita d'oro, mentre un mercante berbero, con il volto velato, si avvicina a dorso di un cammello.
Del resto vi fu un tempo in cui si sapeva bene quanto fossero ricchi i Regni africani (basta vedere i gioielli antichi esposti a Dakar: il Continente fornì la base per il sistema monetario aureo europeo nell’Europa medievale durante la dinastia almoravide. L’afflusso di oro proveniente dall’Africa, fu decisivo per l’evoluzione economica dell’Europa che dette il via alle glorie del Rinascimento. In quei secoli l’Africa esportava tra le 4 e le 5 tonnellate di oro all’anno: nel 1252 Firenze coniò il primo fiorino d’oro seguita da altri stati come Spagna e Portogallo e più avanti, anche l’Inghilterra coniò l’oro africano come testimonia l’elefante presente su una “ghinea”del XVII secolo.
Vi furono anche regni che svilupparono culture tanto complesse da diventare centri di studio. Non ultima la famigerata Tombuctù che nel XVI secolo contava molte moschee, tre università e numerose scuole coraniche. Era un centro di insegnamento famoso per il suo sapere che richiamava studiosi da tutto il mondo arabo (a cui la Scuola di Salerno attinse a piene mani) e meno frequentemente (perché eravamo arretrati) anche dal Sud dell’Europa. In città libri e manoscritti erano valutati più di ogni altra mercanzia.
Non a caso, infatti, la nostra storia è popolata da grandi uomini, letterati, santi e pensatori di provenienza africana: San Agostino di Tagaste (Algeria), Leone l’africano conosciuto anche come al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi fu un geografo ed esploratore arabo del ‘500; il vescovo nero San Zeno (Mauretania, 300 - 317 d.C.) persona colta ed erudita, formatosi alla scuola di retorica africana, i cui maggiori esponenti furono Apuleio di Madaura, Tertulliano, Cipriano e Lattanzio; al santo i veronesi dedicarono l’omonima e celebre basilica, capolavoro del XI secolo. Ma l’elenco sarebbe ben più lungo: Filippo, Demetrio, Calogero, eccetera.
Stupiti? Siete stupiti semplicemente perché questa parte di storia non la conoscete in quanto non è presente nei libri scolastici. Perché? Chissà!, forse è un tema troppo vasto e, così come si omette la storia dell’Asia Antica, si omette quella dell’Africa. O forse la si ritiene (erroneamente) sganciata dal nostro contesto storico. O più semplicemente la si ignora in onore a quel processo di annientamento culturale al quale l’Africa è stata sottoposta da qualche centinaio di anni e che il colonialismo, di cui l’apoteosi del Nazismo diede il colpo finale con la celebrazione dell’inferiorità delle razze.
Vorreste saperne di più, vero? Seguitemi: vi svelerò alcuni “segreti” approfittando proprio di alcune opera esposte a Dakar in occasione del festival.
Cominciamo da uno dei loghi del festival, tratto da una scultura in bronzo della civiltà Ife, fiorita tra il XII e il XV secolo nell’attuale Nigeria....
Di questa civiltà Yoruba non si conosce nulla tranne alcune sculture in terracotta e in bronzo che raffigurano i sovrani dell’antico regno abbigliati con monili e ornamenti sfarzosi che fanno pensare ad una civiltà tra le più ricche e raffinate. Le teste dei re, di una bellezza assoluta, sono modellate con una sensibilità straordinaria, tale da richiamare l’idea di un “Ellenismo Africano”.
scultura proveniente da Ife |
Prima del 1600 tutto questo splendore finì. Perché? I motivi sono molteplici ma non raramente di matrice economica come le cause del crollo del potentissimo Regno di Benin che nel 1500 controllava tutte le vie di traffico conosciute (è del 1486 il primo contatto coi navigatori europei). Ricchissimo: fu il maggiore produttore di oro prima della scoperta dell’America. Avanzato: strutturato in modo complesso, non dissimile dalle corti rinascimentali europee. La capitale di Benin si vantava di essere la più grande città dell’epoca e i viaggiatori olandesi del XVI secolo restarono effettivamente meravigliati per un viale lungo molti chilometri e più largo del più grande viale di Amsterdam.
“Là dove ero alloggiato, scrive l’olandese Dierich Ruiters verso la fine del ‘500, ci trovavamo ad almeno un quarto d’ora dalla porta della città eppure non riuscivo a vedere la fine della strada dall’altra parte”; (...) Una volta all’interno vide: “molte grandi strade a destra e a sinistra. Ma non riuscivo a vederne la fine per la lunghezza.” “Le case di questa città sono in buono stato, ordinate, strette e allineate le une alle altre come in Olanda. Quelle che appartengono a gente di un certo livello sociale, hanno due o tre scalini sull’ingresso e davanti a ciascuna di esse c’è una specie di galleria dove si può sedere al riparo dalle intemperie.” (…) “il palazzo del re è molto grande perchè ha al suo interno molti cortili quadrati con colonnato tutt’attorno dove sono sempre collocate le sentinelle. Io attraversai quattro cortili e dovunque voltassi lo sguardo vidi porte dopo porte che facevano da ingresso ad altri palazzi.”
I viaggiatori rimasero favorevolmente colpiti anche dalla disciplina sociale e dall’ordine civile di Benin e anche da un senso di equilibrio e fiducia in se stessi che evidentemente non si aspettavano di trovare “gente che dispone di buone leggi e di una polizia bene organizzata, persone che vivono in buon accordo con gli Olandesi e con altri stranieri che vengono per commerciare in mezzo a loro, un popolo che manifesta mille segni di amicizia.” Scandalizzava invece, che le ragazze nubili camminassero nude per strada, che l’oba (il re) godesse di un “harem”di 1000 donne e che il regno del Benin fosse protetto da un’esercito di famigerate “invincibili” amazzoni (non dimentichiamo che l’Africa antica è stata per lo più matriarcale), composto dal generale all’ultimo soldato, solamente da giovani donne che portavano il seno fasciato, appiattito da un tessuto legato molto stretto. Grazie alle quali il Benin controllò il commercio della maggior parte dei paesi del continente africano.
Poi alla fine del XIX secolo, un evento drammatico fece precipitare le cose: le truppe inglesi distrussero la città-stato di Benin nel 1897 e l’enorme bottino consistente in migliaia di sculture e manufatti in bronzo, avorio, terracotta e legno, venne portato in Europa e sparpagliato tra musei e collezioni private. Gli inglesi giustificarono i propri atti di sangue nell’espugnazione di Benin City, con storie raccapriccianti di sacrifici umani avvenuti annualmente nella città. Benin City divenne nota in tutto il mondo come una “city of blood” e il re denunciato come ”abominevole selvaggio”e “demone in figura umana”. Il tutto diffuso dalla stampa sensazionalistica inglese che non di rado si serviva di immagini tendenziosamente ritoccate al fine di svalutare la cultura e la società del Benin. Con la diffusione delle opere d’arte razziate, però, risultò sempre più difficile sostenere l’immagine della “razza degenerata che non mostrava alcun segno di civilizzazione”, pretesto con il quale era stato distrutto il paese. Per cui venne proposto un nuovo “modello” capace di sciogliere la contraddizione tra grandiosa arte locale e la pretesa barbarie in uso: venne diffusa l’idea di una società degenerata e venne spiegato che le opere d’arte appartenevano ad una civiltà all’apogeo molti secoli addietro e poi decaduta allo stato selvaggio, cui solo il “civile Occidente” avrebbe potuto porre fine.
Si giunse anche alla convinzione “scientificamente riconosciuta”che nessun abitante del regno del tempo fosse capace di produrre quel tipo di arte e quindi le opere d’arte divennero ”resti di una precedente e maggiore civiltà”. In questo modo si diffusero gli stereotipi razzisti europei, che tutelavano interessi commerciali, minimizzavano misfatti militari e legittimavano spoliazioni coloniali. A causa di fatti come questo, l’immagine dell’Africa incivile, allora corrente, rimase, sostanzialmente inalterata fino ai tempi nostri.
La formula dello screditamento messo in atto per giustificare azioni e atteggiamenti altrimenti considerati immorali, venne reiterata a più riprese applicandola ogni qualvolta se ne presentava l’occasione o la necessità: gli Africani selvaggi, incolti e incapaci di produrre arte e civiltà, andavano educati e per contro era giusto compensare economicamente lo sforzo attingendo alle risorse umane e naturali, così abbondanti in Africa.
In ordine a questo modo di agire si tese a negare l’origine autoctona delle opere pregevoli con la “certezza” che gli Africani non fossero capaci di fabbricarle, ricercandone la paternità in altri popoli bianchi come i Fenici o addirittura i Greci.
Ciò era in linea perfetta con gli interessi del conquistatore Rhodes (da cui Rhodesia) non incline ad accettare l'idea che gli Africani potessero aver dato luogo a una civiltà così importante da costruire il Grande Zimbabwe con grandi mura costruite con una tecnica grandiosa per concezione, che non ha paralleli nel resto dell’Africa né in altri continenti (V-VI secolo). Per costruire le fortezze vennero impiegati blocchi di pietra da una tonnellata, disposti in modo da creare un complesso effetto decorativo. Poi la scienza col Carbonio 14 e altre tecniche di indagine, mise le cose a posto, ma i libri che diffondevano informazioni sbagliate vennero stampati per molti decenni e nella testa dei più l’inferiorità degli Africani divenne un fatto assodato.
Prima di concludere, ancora un’a nota sui Watussi (Wa tutzi). Furono i colonialisti belgi a organizzare gerarchicamente il paese in 2 razze. Iniziarono così a evidenziare i gruppi sviluppando il concetto di razza (biologicamente insostenibile), stabilendo un criterio fisiognomico privo di fondamentio scientifico basato sulla misurazione del cranio. I Belgi videro nella bellezza dei Tutsi una razza superiore (agli Hutu) e non riuscivano ad accettare che fossero realmente africani fino a pensarli provenienti da altri luoghi (non africani) o sopravvissuti del continente perduto di Atlantide. Per questo motivo riservarono loro trattamenti di favore. Nel ‘59 la gerarchia sociale stabilita dai Belgi fu capovolta e gli Hutu il gruppo più elevato, dominò la società. Questo aumentò l'oppressione dei Tutsi da parte degli Hutu e portò a esplosivi conflitti tra culture, tra cui lo spaventoso genocidio dei Tutsi nel 1994.
Queste antiche culture erano così avanzate da aver stabilito rapporti commerciali con l’estremo Oriente, sembra, fin dalla fine del IX secolo. Ne sono testimoni le vestigia di dello Zimbabwe, di Lamu in Kenia e di Kilwa in Tanzania, città stato distrutta dagli uomini del portoghese Vasco da Gama nella seconda metà del 1400. Questi ruderi mostrano ancora oggi ceramiche cinesi inserite nella malta come decorazione architettonica. Altre ceramiche sono emerse da scavi. Inoltre in Cina è conservata il disegno di una giraffa portata dal viaggiatore Zheng He, donata dal re di Malindi all’imperatore cinese: siamo a poco meno di un secolo prma della scoperta dell’America! Tra le rovine di Zimbabwe e nei dintorni, vennero ritrovate anche monete cinesi degli anni compresi tra il 713 e il 742, alcune dell’845 e poi in maggior quantità monete in uso in Cina dal 1068 al 1086; altre tra il 1131 e il 1163. Sappiamo che poco prima del 1480 (epoca dei grandi viaggi degli esploratori Portoghesi), una flotta cinese visitò Mogadiscio attraverso la quale passava parte delle esportazioni del regno di Monomotapa.
Concludo questo breve e frammentario viaggio nella parte più sconosciuta della storia del Continente Nero, con una nota di speranza, con ciò che sembra testimoniare un’Età dell’oro, a noi del tutto del tutto sconosciuta, di un mondo in cui (forse) gli uomini erano un po’ più buoni e al quale dovremmo aspirare tutti quanti.
Lo scrittore Ibn Battuta, di Tangeri, visitò il Mali nel 1352 e trascrisse le sue impressioni su quella regione. Studioso itinerante, all’epoca in cui visitò il Mali, aveva già viaggiato moltissimo fino a venire in contatto con la cultura cinese era in grado di stabilire molti termini di paragone. Da buon nordafricano conservatore, qual’era, Ibn Battuta rimase negativamente colpito dalla libertà di cui godevano le donne nell’Africa Occidentale. In generale, però, rimase felicemente impressionato da ciò che vide e della gente del Mali scrisse: “Uno dei lati positivi è l’assenza di repressione presso di loro. Sono tra le persone che ne appaiono più lontane ed il loro sultano (il re) non permette a nessuno di praticarla. Un altro degli aspetti positivi è il senso di sicurezza che è diffuso in tutto il paese così che né il viaggiatore, né il residente ha alcunché da temere da parte di ladri o di usurpatori.”
ringrazio Stefano Anselmo per il testo e le fotografie
1 commento:
Grazie mille a Stefano per averlo scritto e a Crisitna per averlo riportato. Leggere questo articolo non è certo come essere al Fesman ma... aiuta!
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