mercoledì 26 novembre 2014

hands up, don't shot

22 dicembre, Tamir Rice punta una pistola contro un gruppo di bambini in un parco giochi, la polizia interviene, spara e lo colpisce.
Tamir muore in ospedale.
Tamir aveva 12 anni e la pistola era finta e non ha alzato le mani quando gli è stato intimato.

In questi giorni continuo a pensare a tutti gli amici che da tempo mi dicono di voler lasciare l'Italia, per andare a vivere in paesi in cui i loro bambini, afroitaliani, abbiano maggiori possibilità di vivere lontani da aggressioni e razzismo.
Spero che nessuno di loro pensi agli Stati Uniti.

Morire a 12 anni è una tragedia.
Sparare a un bambino è una tragedia.

Del resto le stragi di adolescenti nelle scuole o nei parchi ad opera di altri adolescenti sono un fatto.
Quel poliziotto è razzista?
Forse sì, o forse si è solo trovato a cercare di capire in un istante quale fosse la cosa migliore da fare.

Sicuramente c'è razzismo dietro la morte di Michael Brown, che aveva solo 18 anni ed era disarmato e con le mani in alto quando è stato ucciso.
Ma non c'è razzismo, solo tragedia, nella morte di una bambina californiana, 8 anni, uccisa a coltellate dal fratellino di 12 in un tranquillo pomeriggio domenicale.

Gli Stati Uniti sono un paese violento, in cui, rispetto agli altri, la comunità afroamericana paga prezzi altissimi e subisce aggressioni razziste tutti i giorni.
Sono anche il paese in cui la lotta per i diritti umani ha raggiunto livelli molto alti, in cui la rivendicazione della dignità del popolo nero ha prodotto cambiamenti enormi.
Sono anche il paese a cui tutti guardiano, in un modo o in un altro.

Nel ricordare Tamir Rice, morto a 12 anni per mano della polizia e di un sistema violento, so con certezza che gli Stati Uniti non sono, certamente, il posto in cui vorrei crescere mio figlio.

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