sabato 8 ottobre 2011

paternità attraverso le frontiere (ma davvero non è un mestiere per uomini?)

Dorme, il mio piccolo tiranno dell'anima, il padrone assoluto delle mie tette da latte, e del mio tempo, dorme dopo una notte passata nel lettone, a raccontarsi barzellette e scambiarsi confidenze con i conigli: mentre lui ha sostanzialmente riposato, i suoi genitori si sono svegliati a turno e stravolti si sono chiesti perchè questo bambino abbia da discutere sempre su tutto, perfino quando dorme.
Discute con la sdraietta, discute con i pannolini che hanno una rana sul davanti, discute con la tetta quando ha finito di ciucciarla, discute con le sue mani che passano e ripassano davanti agli occhi, afferrano le orecchie o le dita del papà, e si infilano in bocca o si aggrappano alle magliette che trovano.
Discute e ciuccia e poi rutta come un camionista e si addormenta satollo.
E noi usciamo stremati da ogni sessione, ancora nella fase in cui tutti è talmente nuovo che sembra potenziamente allarmante, anche se non lo è mai.

Khady, la sorella di B, lo prendeva bonariamente in giro quando ha avuto conferma di una voce che gira insistente tra i vicoli di Dakar: B cambia il pannolino a suo figlio e gli lava il culetto!
Se Momo fosse nato in Senegal ci sarebbero solo donne ad ammirare le sue possenti neonate intimità.
B cambia pannolini, fa il bagnetto, spalma creme anti-eritema, prepara biberon, ragiona di capezzoli doloranti e ingorgo mammario, sceglie pigiamini, decreta l'ora di andare a dormire, canta ayo nene (*) e poi si addormenta con il ragazzino sulla pancia convinto di averlo addormentato, mentre quello se la ride sotto i baffi e spalanca gli occhi appena suo padre emette il primo sbuffo di sonno.


(*) qui la musica, il testo e la traduzione di questa bellissima ninna nanna wolof


Ma altrove la storia è un'altra.

Ehi, tuo figlio piange, vedi cos'ha! grida il papà, che sta accanto alla culla, rivolto alla neomamma stravolta che si affanna in cucina per rimediare la cena tra una poppata e l'altra. Cambialo, dagli da mangiare, coprilo, mettilo a dormire... (e sìì anche una vera femmina, ben vestita e truccata, pronta a soddisfare il mio mai stanco desiderio, la mia fame, a rispettare il mio sonno, a tenere pulita la mia casa, a ricevere i miei parenti...)...
Di solito, in Senegal, funziona così.
Oppure si decide che, ancora meglio, la mamma torna a casa dei genitori per qualche mese, per essere accudita da nonna, sorelle e cognate, escludendo totalmente la presenza e l'apporto paterni.
Ma questi poveri neopapà sono considerati degli incapaci?
O troppo impegnati in alti pensieri?
O troppo fragili per perdere qualche ora di sonno?
E loro, cosa pensano di sè stessi?
Sta di fatto che genericamente questa è la normalità africana, e viene vissuta con serenità e senza quel senso di sopraffazione maschile che ci porteremmo dentro noi, non escludendo affatto che i padri siano dei buoni padri e degli ottimi mariti pur nella totale assenza.

Il Culto delle Madri in Africa si declina in maniera per me impossibile.
Appena nato Momo, il suo papà, che assisteva ai mie primi stalunamenti da notti in bianco, per consolarmi mi ha compuntamente spiegato quanto tutto questo sacrificio (l'ha chiamato proprio così) costituisse un legame speciale tra me e mio figlio.
Valorizzare il sacrificio che una madre compie per il proprio figlie, portandolo in pancia nove mesi con fatica, mettendolo al mondo con dolore e crescendolo con dedizione è un fatto culturale fondamentale per il mondo senegalese, una delle colonne portanti delle relazioni famigliari e sociali: la yaay è sempre la yaay.
Bè, anche da noi la mamma è sempre la mamma e direi che, inevitabilmente, la mamma è sempre la mamma: nessuno può sostituirsi a lei.
Ma mi rifiuto di farmi divinizzare!
Una diversità di ruoli diventa un privilegio e allo stesso tempo una tremenda gabbia: la mamma santa, la mamma che dà la vita, la mamma che va ripagata è anche la mamma che non può avere altri pensieri, interessi, amori al di là della propria prole e che gioisce del sacrificio e dei sacrificarsi come una martire di cristiana memoria.
Dio mi scampi dalla Grande Madre! ho risposto, altrettanto compuntamente a B.

E difatti, nel suo stesso comportamento B ha realizzato che qua non ci sono Madri sante nè Padri intoccabili, nel suo stesso desiderio e nella strada che si è scelta.
La migrazione porta cambiamento e creatività: quello che lì non è socialmente contemplato, qui un uomo se lo permette con libertà e gioia.
E così eccomi a spiegare a mio marito che nostro figlio, dalle primissime ora di vita, sta già imparando che in questa famiglia il rispetto dovuto è equalmente condiviso e che il sacrificio è nostro, di entrambi.
Se il suo papà non può allattare nè vantare un parto con dolore nell'albo d'onore, però può esibire le cicatrici di una casa che brilla come una pubblicità e di tutta una serie di incombenze da cui sono stata da subito sollevata, può avanzare il diritto di chi affronta pannolini pieni con coraggio più volte al giorno, di chi fa il bagnetto con divertimento (reciproco), di chi sa come si affronta un allattamento al seno un po' difficile, di chi ha mani dolci che calmano il pianto e il maldipancia con un massaggio al burro di karitè, di chi cucina per me, di chi mi spinge ad uscire, ad affrontare i mezzi pubblici e gli uffici amministrativi e a riprendere la vita di sempre già dopo la prima settimana.
Tutto questo, a casa sua, l'avrebbe fatto sua madre per me.
Qui, dopo una piccola concessione ad un rapido dubbio (mi sembra di essere un po' una mamma), il posto è lasciato all'istinto, a quella voglia di paternità che è possibile vivere pienamente senza che nessuno ci metta il naso.

E così non ci metto il naso neppure io, se non per guardarli annusarsi a vicenda, questo papà e questo bambino nuovo nuovo.

E li confronto con gli altri papà italo-senegalesi che conosco, che hanno valorosamente assistito al parto accogliendo tra le braccia il loro bambino, che sacrificano ai figli le poche ore libere dal lavoro, che discutono di colichette e trovano rimedi insieme ad altri papà, che scandagliano la città di notte alla ricerca di una farmacia, che tengono a distanza i parenti oppure li obbligano ad una presenza discreta e di supporto, che rinunciano alla vita di prima per entrare con piena e adulta consapevolezza nella vita di adesso.

E non si tratta di europeizzarsi, che banalità!
Qualche giorno fa ne parlavo, en passant, con l'infermiera pediatrica del consultorio, che ha commentato vagamente acida: bè, a volte, emigrando si impara qualcosa della cultura di arrivo.
Ecco, no, non si tratta di questo: qua non si tratta di avere imparato, si tratta di darsi una possibilità insperata.
Un po' come fumarsi una canna ad Amsterdam, gioiosamente in mezzo alla strada.

B in questi giorni è totalmente drogato d'amore per suo figlio.
E può viverselo.
Alhamdulillahi!

1 commento:

Irene ha detto...

scusa potresti riferire all'infermiera pediatrica del consultorio che la naturalezza con cui i padri di altra cultura si approcciano alle quotidiane faccende neonatali è ben più sviluppata di come la nostrana cultura ... alla quale innanzitutto va spiegato come si prenda un bambino in braccio ^_^